08-02-2024, 11:44 AM
(This post was last modified: 08-02-2024, 11:44 AM by SELLECK87.)
I CANI POSSONO ELABORARE I NUMERI E UTILIZZANO LA STESSA PARTE DEL CERVELLO DEGLI UMANI
Quando si tratta di numeri, alcune cose sono innate, come la capacità di giudicare quanti elementi vediamo. Questa viene chiamata "numerosity adaptation effect" ed è stata vista in tutto il regno animale, dalle scimmie, ai pesci e alle api (piccole geni del mondo della matematica).
"Siamo andati direttamente alla fonte, osservando il cervello dei cani, per avere una comprensione diretta di quello che succede nei neuroni quando vedono una quantità variabile di punti", afferma la psicologa cognitiva Lauren Aulet.
I ricercatori hanno addestrato 11 cani ad entrare e sedersi immobili all'interno di una macchina per la risonanza magnetica, non dando agli animali alcun indizio di cosa fare una volta entrati. Questo è un punto chiave di differenza rispetto ai precedenti studi simili, in cui i soggetti sono stati addestrati e premiati per l'esecuzione di compiti "numerici".
Otto delle undici regioni parieto temporali dei cani si sono illuminate più intensamente quando il rapporto tra i punti sullo schermo era maggiore, ad esempio 2:10 e 4:8. Ma il loro cervello non ha risposto allo stesso modo quando sono cambiate solo le dimensioni e le posizioni dei punti, mentre il rapporto è rimasto lo stesso.
Ciò dimostra che i cani stavano rispondendo specificamente a una differenza di quantità. Le regioni del cervello che si sono attivate erano simili a quelle osservate quando i primati (esseri umani compresi) elaborano delle quantità. "Parte del motivo per cui siamo in grado di eseguire calcoli è perché abbiamo questa fondamentale capacità che condividiamo con altri animali", dichiara Aulet.
Ricerche precedenti hanno dimostrato che i cani possono contare fino a cinque e avere una conoscenza di base della matematica semplice. Questo nuovo studio non fa altro che confermare la capacità dei nostri amici a quattro zampe di percepire quantità numeriche, senza addestramento umano. Un meccanismo che potrebbe aver avuto un ruolo chiave nella "nel foraggiamento o nella predazione", concludono infine i ricercatori
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ABBIAMO TROVATO UNA NUOVA SPECIE DI THEREZINOSAURO, IL DINOSAURO "DAI LUNGHI ARTIGLI"
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Alcuni paleontologi giapponesi dell'Università di Hokkaido hanno appena pubblicato sulla rivista iScience un articolo in cui hanno comunicato alla comunità scientifica internazionale di aver scoperto una nuova specie di Therizinosaurus dalle caratteristiche particolari.
Il terizinosauro era un dinosauro onnivoro dotato di lunghi artigli che visse in Asia e Nord America nella seconda metà del Cretaceo e di recente ha ottenuto fama internazionale grazie alla sua partecipazione cinematografica nel film Jurassic World Dominion. Una presenza che ha fatto storcere particolarmente il naso ai paleontologi, per via della sua cattiva caratterizzazione (non una sorpresa, considerando come questo film sia stato criticato aspramente anche dai recensori).
La nuova specie visse tra 95 e 90 milioni di anni fa ed è stata trovata nella località di Urlibe Khudak della Formazione Bayanshiree, nel cuore del deserto del Gobi, nella Mongolia sud-orientale. Il suo nome è Duonychus tsogtbaatari e rispetto ai suoi parenti più prossimi era un dinosauro di medie dimensioni, di circa 260 kg.
Oltre alle differenze dimensionali, ciò che rendeva il D. tsogtbaatari diverso rispetto le altre specie di terizinosauro era il suo differente numero di dita, che gli permetteva di possedere solo due grandi artigli, mentre le altre specie ne avevano tre.
L'esemplare trovato dai paleontologi era costituto oltre che dagli artigli e dalle ossa delle mani da diverse paia di costole e di vertebre, dell'osso dell'anca e del bacino (cliccare qui per vedere la mappa completa dell'animale).
"Nonostante avesse solo due dita funzionali, è probabile che il Duonychus tsogtbaatari fosse un animale abile ad afferrare gli oggetti con le mani, considerando l'estrema flessione dell'articolazione ungueale e la forte curvatura dell'artiglio cheratinoso, caratteristiche sconosciute da altri terizinosauri finora scoperti" hanno dichiarato i paleontologi nel loro articolo.
Secondo le attuali conoscenze, questo animale avrebbe potuto persino afferrare rami e alcune strisce di vegetazione aventi circa 10 cm di diametro, usando gli artigli non solo per difesa ma anche per agganciare i rami più alti e le alghe filamentose sospese negli argini dei fiumi.
La sua scoperta ha inoltre permesso agli studiosi di stabilire l'inaspettata diversità morfologica presente all'interno del gruppo dei terezinosauri.
Fonte: SCI.NEWS
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LE FORMICHE SONO GLI UNICI ANIMALI, OLTRE AGLI ESSERI UMANI, CHE FANNO QUESTA COSA
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Alcune formiche praticano amputazioni salvavita sui propri simili. Secondo uno studio pubblicato su Current Biology, le formiche carpentiere della Florida (Camponotus floridanus) sono gli unici animali conosciuti, oltre all’essere umano, a effettuare interventi sistematici per curare ferite gravi, migliorando le probabilità di sopravvivenza.
I ricercatori hanno osservato che, quando una compagna di nido subisce una lesione a una zampa, le formiche analizzano attentamente il tipo di danno. Se la ferita si trova sul femore, dove il rischio di infezione è alto a causa della maggiore quantità di tessuto muscolare, optano per l’amputazione dopo una prima pulizia.
E ricordate: ma farvi nemiche le formiche. Se invece il danno è sul tibia, più superficiale, si limitano a pulire la ferita senza rimuovere l’arto. Il risultato? Una sopravvivenza del 90-95% con l’amputazione, contro il 75% con la sola pulizia.
Quello che colpisce non è solo l’efficacia, ma la precisione con cui le formiche agiscono: mordono l’arto danneggiato con cura, poi ripuliscono la nuova ferita, tutto senza alcuna forma di addestramento. È un comportamento innato, che si manifesta in fasi specifiche della vita dell’individuo.
A differenza di altre specie come Megaponera analis, che usano ghiandole con sostanze antimicrobiche, le C. floridanus si affidano esclusivamente a metodi meccanici, usando le mandibole come strumenti chirurgici.
FONTE: EARTH
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STUDENTE SCOPRE PER CASO UN FOSSILE DI 300 MILIONI DI ANNI CHE NON DOVREBBE ESISTERE
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La Paleontologia è sicuramente una delle discipline scientifiche che attraggono maggiormente i giovani, sia per la possibilità di poter passare buona parte della loro vita all'aperto, compiendo diverse avventure, sia per il semplice fatto di trovare e toccare con mano nuovi reperti.
Cominciare a scoprire nuovi fossili di notevole valore scientifico non è però un risultato che riescono a compiere tutti gli studenti, come dimostra il numero elevato di persone che si iscrivono ai corsi di paleontologia, geologia e scienze naturali in tutto il mondo.
Esistono però dell'eccezioni. Qualche settimana fa, Kolby Dooling, uno studente universitario statunitense, stava accompagnando a un'escursione insieme ad altri suoi colleghi il suo professore di geologia, Chris Shelton, della Rogers State University, intento a studiare da anni un sito fossile molto famoso dell'Oklahoma.
Questo sito è molto ricco di ammoniti - dei cefalopodi estintisi nel Mesozoico - e Shelton pensava che portarci i suoi studenti avrebbe permesso loro di prendere una certa confidenza con le regole basilari della paleontologia. Egli tuttavia non si aspettava che uno di essi - Dooling, appunto - gli avrebbe consegnato un frammento di ammonite alquanto particolare, che in teoria non avrebbe dovuto esistere (qui l'immagine).
A differenza di molti altri fossili lì presenti, l'esemplare scoperto da Dooling brillava come una pietra preziosa, una caratteristica dovuta alla cristallizzazione dell'aragonite, un minerale di carbonato di calcio che di solito si deposita all'interno delle ammoniti dopo la morte, in grado di rinfrangere la luce.
In questo caso la cristallizzazione era avvenuta anche all'esterno dell'ammonite, evento che aveva alla fine reso il fossile un'ammolite, una pietra preziosa di natura organica che si può trovare solamente tra le pendici delle Montagne Rocciose.
Trovare ammoniti completamente ricoperte da cristalli è molto raro, ma a rendere questa scoperta ancora più interessante è stata la sua datazione, che ha permesso agli scienziati di capire di avere tra le mani un'ammonite di oltre 300 milioni di anni.
"Si tratta di una delle più antiche in assoluto" ha spiegato in una dichiarazione stampa il professore, che ha inoltre sottolineato come le ammoliti si trovano in genere in giacimenti più recenti.
Dopo aver effettuato questa scoperta, Dooling e Shelton si sono ripromessi di ritornare nella stessa zona e da allora hanno scoperto anche nuovi reperti fossili appartenuti ad antichissimi squali ed invertebrati, in previsione di una futura pubblicazione.
Qualche anno fa, invece, un altro gruppo di paleontologi aveva individuato il più grande fossile di ammonite mai trovato, all'interno di un sito tedesco.
FONTE: DAILY GALAXY
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LA MINACCIA INVISIBILE DELLA 'BIODIVERSITÀ OSCURA' CHE SVUOTA LE NOSTRE FORESTE
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(Gianfranco Carraca/Moment/Getty Images)
Anche se sembrano in salute, le foreste sono in pericolo. Ma spesso, ciò che non vediamo è ancora più inquietante di ciò che vediamo. Un’enorme ricerca internazionale su quasi 5.500 siti in tutto il mondo ha rivelato un fenomeno chiamato “biodiversità oscura”.
Intere aree in apparenza floride risultano, in realtà, private di gran parte delle specie vegetali che potrebbero abitarle.
Secondo gli scienziati del progetto DarkDivNet, guidato da un team globale di 200 ricercatori, anche le zone meno toccate dall’uomo ospitano solo un terzo delle piante compatibili con l’ambiente. Nelle aree più degradate, la percentuale scende addirittura al 20%. Il nemico? L’impronta dell’essere umano: inquinamento, agricoltura intensiva, incendi dolosi e deforestazione silenziosa.
Ma anche la frammentazione degli habitat e la scomparsa degli animali che aiutano la dispersione dei semi contribuiscono a un impoverimento lento ma devastante. Pensate che questa pianta si è evoluta per nascondersi dagli esseri umani.
Gli scienziati hanno incrociato i dati sulle specie assenti con l’indice globale dell’impatto umano. Il risultato è chiaro: più è intensa la presenza dell’uomo, più si riduce la varietà vegetale, anche nei parchi protetti. Una parziale eccezione sono i pascoli tradizionali, dove un utilizzo moderato e sostenibile ha mantenuto ecosistemi sani.
La perdita di biodiversità è il declino silenzioso della vitalità degli ecosistemi. Ma una speranza c’è. Sapere quali specie mancano, ma potrebbero tornare, apre la porta a strategie di ripristino. Mentre in questo luogo c'è una pianta che sfida l'estinzione.
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UNO STUDIO AUSTRALIANO ACCUSA I CANI DOMESTICI DI ESSERE UNA MINACCIA ECOLOGICA: SARÀ COSÌ?
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Image by Edwin Henry Landseer / Heritage Art / Heritage Images via Getty / Futurism
Chi avrebbe mai pensato che il “migliore amico dell’uomo” potesse essere un vero incubo per l’ambiente? Eppure è ciò che afferma un recente studio australiano pubblicato sulla rivista Pacific Conservation Biology, che mette sotto una luce piuttosto inquietante il ruolo ecologico dei cani domestici. Ma sarà davvero così grave la situazione?
Secondo Bill Bateman, ricercatore della Curtin University, la società tende a perdonare ai cani comportamenti distruttivi per via del loro status di animali da compagnia, dimenticando quanto possano essere impattanti per gli ecosistemi. Anche i gatti sono spietati killer di animali.
Dalla loro diffusione capillare al comportamento predatorio, i cani sono responsabili della morte di numerose specie animali, soprattutto uccelli costieri. Ma non serve nemmeno che attacchino: la loro sola presenza — o anche solo l’odore lasciato sul terreno — basta per alterare il comportamento di cervi, volpi, linci e altri animali selvatici, che tendono ad evitare completamente le aree frequentate da cani.
E poi c’è la questione, tutt’altro che secondaria, degli escrementi. Le deiezioni canine abbandonate possono contaminare corsi d’acqua e inibire la crescita della vegetazione. Come se non bastasse, i prodotti chimici usati per lavare o proteggere i cani da parassiti finiscono per rilasciare sostanze tossiche nell’ambiente acquatico.
Bateman non intende demonizzare i cani, i più antichi compagni degli esseri umani, ma invita a un’azione responsabile: educarli a non cacciare, usare detergenti meno aggressivi e — almeno — raccogliere i loro bisogni.
Fonte: futurism
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IN SPIAGGIA A PRIMAVERA? NON CALPESTARE LE UOVA DEI FRATINI, PICCOLI TESORI DA PROTEGGERE!
La primavera è iniziata da qualche settimana e insieme ad essa sono cominciate ad arrivare le belle giornate, il caldo e i week end in cui è possibile passare qualche ora sotto il sole in spiaggia.
Proprio per via della potenziale migrazione delle persone verso le coste durante i fine settimane, gli ambientalisti italiani - capitanati dalle associazioni LIPU, WWF e Legambiente - hanno cominciato la propria campagna di sensibilizzazione nei confronti della nidificazione degli uccelli costieri.
Fra questi c'è il fratino euroasiatico, noto anche come Charadrius alexandrinus, che proprio in questi giorni ha cominciato a deporre le proprie uova sulla sabbia di diverse spiagge italiane.
Di piccole dimensioni, questo piccolo uccello è fra i più piccoli rappresentanti della fauna costiera e non necessita di zone boscose. Egli depone le proprie uova direttamente sulla sabbia e considerando come queste si mimetizzano perfettamente con l'ambiente circostante, sono molto difficili da vedere.
Ciò può risultare un problema per la specie, visto che in media i bagnanti si accorgono della loro presenza solo quando le hanno rotte, muovendosi inavvertitamente lungo la costa.
Spesso questi uccelli decidono di deporre le uova anche sopra i cumuli di rifiuti spiaggiati, che sono stati trasportati sulla sabbia dalle correnti marine. Per questa ragione gli ambientalisti chiedono anche ai volontari di fare particolare attenzione, quando svolgono le attività di pulizia straordinaria delle spiagge.
Per fortuna, alcune persone che si sono specializzate nell'individuare le loro nidificazioni sono in grado di superare il mimetismo delle loro uova, identificandole facilmente. Questa capacità è però il frutto di un lungo allenamento e di studio.
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SCATTA IL TERREMOTO E QUESTI ELEFANTI FANNO QUALCOSA CHE NESSUNO SI ASPETTAVA
Un recente terremoto in California ha portato alla luce un fenomeno etologico degno di nota. Durante una mattinata che si preannunciava ordinaria, un terremoto di magnitudo 5.2 ha colpito la regione di San Diego, innescando una curiosa reazione istintiva negli esemplari di elefante africano ospitati presso il locale Safari Park.
Il comportamento dei pachidermi evidenzia dinamiche sociali complesse che gli etologi hanno identificato come caratteristiche delle società matriarcali tipiche di questa specie.
Al verificarsi delle prime scosse, gli esemplari adulti (chiamati Ndlula, Umngani e Khosi) hanno immediatamente adottato una formazione difensiva nota in letteratura scientifica come "alert circle": i membri adulti del gruppo circondano fisicamente i giovani esemplari, in questo caso specifico Zuli e Mkhaya.
Questa manifestazione comportamentale rappresenta un chiaro esempio di quello che l'etologo Konrad Lorenz definirebbe un modulo comportamentale innato, ovvero un pattern d'azione fisso attivato da stimoli ambientali specifici.
La formazione protettiva è stata mantenuta per circa quattro minuti, durante i quali gli adulti hanno manifestato posture di vigilanza, per poi "sciogliersi" gradualmente al cessare del pericolo percepito. Tuttavia, anche dopo la fine del terremoto, gli elefanti hanno mantenuto una disposizione che consentisse un rapido ripristino della posizione difensiva.
Ciò che merita particolare attenzione in questa circostanza è la manifestazione di un comportamento collettivo che suggerisce forme elevate di socialità e di empatia tra gli elementi della specie. Non è la prima volta, tra l'altro, che si nota un comportamento di questo genere negli elefanti.
Se è vero che l'intelligenza è la capacità dell'uomo di trovare un modo per sopravvivere all'ambiente...beh, c'è da dire che questi pachidermi sono davvero una spanna avanti a tanti altri animali.
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CANI E OLFATTO: IL SEGRETO PER COMPRENDERE IL MONDO CHE LI CIRCONDA
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Nonostante sappiamo perfettamente che l'olfatto rappresenta uno dei sensi più sviluppati dei cani (e non solo), ad oggi sappiamo ancora realmente poco su come interpretino gli odori. Ora, un recente studio potrebbe finalmente fornirci qualche risposta in più.
Dopo aver scoperto che anche i gatti hanno degli amici, iniziamo subito col sottolineare come il naso di un cane abbia più di 10 milioni di recettori olfattivi. Si tratta di un numero decisamente impressionante se pensiamo che gli esseri umani ne hanno "solamente" 6 milioni.
Proprio per questo motivo, i nostri fedeli amici a quattro zampe sono perfettamente in grado di rilevare anche quantità minime di odore. Un esempio concreto? I cani da fiuto utilizzati nella ricerca forense possono rilevare 0,01 microlitri di benzina. Ricordiamo come un microlitro sia un milionesimo di litro…
Alla luce di simili caratteristiche, appare estremamente affascinante studiare l'attività cerebrale dei cani nel momento in cui sono esposti a odori specifici. Così facendo, è possibile identificare le regioni cerebrali coinvolte nell’olfatto. Fino ad oggi però, il principale scoglio da superare risiedeva nella necessità di adoperare attrezzature estremamente costose.
All’interno dello studio di cui vi parliamo oggi, il team ha messo in campo un nuovo metodo economico e non invasivo. La metodica utilizzata è nota come analisi AI speckle pattern.
In particolare, in un primo momento i ricercatori hanno sviluppato un sensore ottico atto ad individuare tre aree cerebrali coinvolte nella discriminazione degli odori: l'amigdala, il bulbo olfattivo e l'ippocampo.
Analizzandoli singolarmente, scopriamo che: l’amigdala è un’area responsabile delle risposte emotive agli stimoli; il bulbo olfattivo è coinvolto nell'elaborazione degli odori e l'ippocampo è associato alla formazione della memoria.
Gli scienziati si sono poi serviti di una fotocamera digitale ad alta risoluzione collegata a un computer e ad un laser verde. La luce laser, in grado di penetrare il pelo del cane e le ossa del cranio, è stata proiettata sulla testa di quattro cani di studio bendati ed emotivamente rilassati, esposti a quattro diversi odori target: alcol, marijuana, mentolo e aglio.
Nel momento in cui il laser veniva riflesso dalle aree cerebrali, la telecamera rilevava l'interferenza come un distinto pattern. A questo punto, entra in gioco l’intelligenza artificiale.
Quest’ultima ha analizzato le differenze nei pattern delle diverse regioni cerebrali col dine di realizzare dei modelli sulle diverse reazioni nelle aree cerebrali coinvolte nell’elaborazione di ciascun odore. I risultati sono decisamente chiari.
È infatti possibile osservare l’importante ruolo rivestito dall'amigdala nella discriminazione degli odori. Inoltre, i ricercatori ritengono estremamente probabile l’esistenza di una componente emotiva nel modo in cui i cani percepiscono l'ambiente circostante.
Tali scoperte contribuiscono profondamente nelle metodiche di addestramento messe in atto quotidianamente per rafforzare il rapporto con l’essere umano. Ad esempio, i cani spesso associano l'aroma caratteristico dell'ambulatorio veterinario a situazioni spiacevoli. Un dettaglio da non sottovalutare, anche dimenticando per un attimo che percezione potrebbero avere nei confronti della sindrome che dona al sudore l’odore di pesce marcio.
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QUANDO SONO COMPARSI I PRIMI MAMMIFERI SULLA TERRA? PIÙ DI QUANTO PENSI
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Se oggi possiamo ammirare mammiferi di ogni forma e dimensione, dai delfini rosa dell’Amazzonia alle volpi artiche delle zone più gelide del pianeta, lo dobbiamo a una linea evolutiva iniziata oltre 225 milioni di anni fa.
Già nel Triassico, mentre i primi dinosauri iniziavano a dominare la Terra, alcune minuscole creature notturne — simili a topi — iniziavano a scrivere le prime pagine della storia dei mammiferi... fino ad arrivare ai giorni d'oggi e a tutti noi: ne abbiamo fatto di strada, eh?
Questi antichissimi animali avevano caratteristiche molto simili a quelle dei mammiferi odierni: sangue caldo, ghiandole mammarie e, nella maggior parte dei casi, partorivano piccoli vivi. I primi fossili ci parlano del Brasilodon quadrangularis, una creatura lunga appena 20 centimetri, probabilmente abituata a vivere in tane sotterranee, non molto diversa da un toporagno.
Prima della scoperta del Brasilodon, il più antico mammifero conosciuto era il Morganucodon, datato a circa 205 milioni di anni fa. Anche lui, come il suo “cugino” sudamericano, era un minuscolo predatore di insetti croccanti. Entrambi questi animali — e tutti i mammiferi esistenti — discendono dai cinodonti, vertebrati preistorici dal caratteristico aspetto e dai denti simili a quelli dei cani, sopravvissuti alla devastante estinzione del Permiano.
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